PATRONI
Ultimo aggiornamento
Viste 121
NOSTRI SANTI PATRONI
Felicita, discende da una delle più antiche famiglie patrizie di Roma, probabilmente della GENS CLAUDIA, visse nella Roma imperiale durante la prima metà del II secolo. Non conosciamo il nome dell'uomo a cui Felicita si era unita in matrimonio ma sappiamo con certezza che da lui ebbe la gioia di diventare madre per ben sette volte, prima di rimanere giovane vedova.
La sua attività casalinga di madre premurosa e i pesanti impegni domestici non le vietarono di seguire con attenzione gli insegnamenti della nuova religione chiamata Cristianesimo, alla quale si convertì con tutta la famiglia.
Nella sua casa venivano organizzate riunioni per celebrare i misteri di Cristo: si leggevano passi dell'Antico Testamento riguardanti le profezie sul Redentore, si narravano fatti e miracoli della vita di Gesù e le parole degli Apostoli per poi concludere con la celebrazione eucaristica, allora ai primi passi. Quasi certamente per questi riti veniva utilizzata la villa di campagna di Felicita, posta sulla via Salaria, dalle parti di Fidene.
Oltre alla carità di Cristo, Felicita esercitava la carità verso il prossimo; tutti i bisognosi venivano a lei: schiavi, abbandonati, vedove, orfani e indigenti di ogni specie in cerca di pane e di buone parole. Le ricchezze di famiglia erano state messe a disposizione del gruppo; la santa vendeva generosamente case e terreni, derrate e gioielli per offrirne il ricavato ai sacerdoti, a favore dei poveri della Comunità.
Ma le lunghe file di mendicanti davanti al portone di casa, i giochi fraterni dei figli di Felicita con quelli degli schiavi, misero in avviso alcuni invidiosi che, contrari alla diffusione della fede cristiana e avidi delle ricompense promesse ai delatori, andarono denunciare Felicita E fu così che la Santa si ritrovò dinnanzi ai tribunali per rispondere di un'accusa tanto grave.
IL GIUDIZIO
I sacerdoti pagani, sentita la notizia dei delatori, si recarono prontamente dall'imperatore, accusando Felicita di essere cristiana e che, con parole ed opere, invitava molti cittadini a seguire il suo esempio. "Gli dei di Roma sono altamente sdegnati ed offesi per quanto riguarda la religione dei cristiani ma anche le leggi dello Stato sono state violate. Gli dei e la giustizia di Roma, dissero i sacerdoti, esigono una solenne riparazione che sia di esempio a tutti, altrimenti grandi mali, calamità e sciagure ricadranno sulla tua persona e sull'impero!"
Alla veemenza delle accuse dei sacerdoti, Marco Aurelio, restò molto turbato a causa della nobiltà della matrona. Non sarebbe stato possibile per un Romano convinto poter adorare e credere ad un dio che la legge aveva condannato a morte come un malfattore, era inumano pensare ad un dio che si era fatto morire con il supplizio più infamante, la morte di croce!
Con dispiacere, perciò, ma pensando di fare il bene dello Stato, ordinò che si procedesse nel giudizio contro Felicita e affidò il processo ad un suo prefetto Publio, grande esperto di legge, la cui statua ancor oggi si erge nel Palazzo di Giustizia di Roma.
Con grande enfasi l’inquisitore Publio cominciò a leggere l'accusa dei sacerdoti contro Felicita, facendo notare l'ignominia di coloro che venivano dichiarati nemici dello stato e specialmente il dovere che una rappresentante di una famiglia senatoria avrebbe dovuto avere nei confronti delle patrie leggi.
Rivolgendosi poi alla matrona, la dichiarava responsabile delle eventuali torture e della morte che sarebbero toccate ai figli se avesse insistito nel dichiararsi cristiana. "La statua dell'imperatore, diceva con voce blanda il prefetto, è posta qui dinnanzi a noi mentre ai suoi piedi brucia il sacro fuoco; basta che voi mettiate un granello d'incenso nel tripode per dimostrarmi che voi rinnegate il cristianesimo, non dovete nemmeno parlare... Potrete poi, tornarvene felicemente a casa".
Felicita, stretti fortemente i figli a sé, guardò con occhi di commiserazione il prefetto e sorridendo li rivolse al cielo, senza degnare di una risposta il suo inquisitore. Allora Publio, visto che con le buone maniere non riusciva a piegare la volontà degli accusati, ricorse a minacce ben gravi mostrando, nel contempo, i sadici strumenti preparati per la tortura.
Fu allora che la santa madre, forse vedendo il brivido di paura che corse sul volto dei figli, li strinse di nuovo a sé, gridando, con l'indice rivolto al cielo: “Figli miei, io vi dico di guardare il cielo! Rivolgete sempre e tenete fissi gli occhi al cielo dove Gesù Cristo vi attende con i suoi angeli e i suoi santi!" Publio, allora, comprese che, finché la madre fosse stata presente, a nulla sarebbero valse le minacce per i figli, anzi sarebbe stata sempre più la valida sostenitrice della loro fede, per cui passò dalle parole ai fatti...
L'INTERROGATORIO
Dopo averle fatto legare le mani all'anello della colonna, Publio fece flagellare la matrona e, dopo questo supplizio, ordinò che fosse gettata in prigione. Era il mese di maggio:...Ore intere trascorrevano nella sua accorata preghiera...
Tutti i fratelli, ora, privi della madre, guardavano con angoscia e paura il fratello maggiore Gennaro. Particolarmente a lui si rivolse il Prefetto, ripetendo le solite lusinghe e le solite minacce. Ma questi, incoraggiati dall'esempio della madre, si mostrò degno figlio di Felicita... Si tentò di far balenare di fronte ai suoi occhi tutti gli onori e i piaceri della corte, qualora avesse rinnegato la fede e avesse sacrificato agli dei e all'imperatore. Quale prova terribile per questo generoso atleta di Cristo e per i suoi fratelli! Scegliere la vita, gli onori e i piaceri del mondo oppure i patimenti, l'ignominia e la morte! E tutti generosamente scelsero la morte, piuttosto che tradire la loro fede!
Infatti così il giovane Gennaro rispose all'inquisitore: "Io ho preso a mia guida la salvezza di Dio ed essa certo mi darà la vittoria sulla vostra empietà" Il Prefetto allora lo fece flagellare davanti agli occhi esterefatti dei fratelli minori e lo fece rinchiudere in prigione insieme ai malfattori comuni.
Chiamò, poi il secondogenito Felice e lo esortò in tutti i modi ad essere più saggio del fratello se non voleva incorrere negli stessi tormenti e nelle stesse punizioni. Ma anche Felice, con voce franca e ferma, accennando il cielo con il dito, disse: "Lassù non v'è che un solo Dio ed è quello che noi adoriamo; a Lui noi offriamo il sacrificio di tutti noi stessi; non sperare, quindi, di separarcene. "Il Giudice, dopo averlo fatto battere con le verghe, ordinò che fosse messo in prigione insieme al fratello.
Si rivolse, ancora, al terzo fratello Filippo con paterne parole: "Almeno tu, non costringermi ad essere cattivo con te, sii ubbidiente almeno tu agli ordini del nostro imperatore e offri l’incenso ai nostri dei onnipotenti."
"Non sono già degli dei, lo interruppe il ragazzo, ma dei vani simulacri di marmo e di metallo che non hanno alcun potere e intelletto, e ancor meno ne dimostrano coloro che li adorano!" Così anche a Filippo toccò la stessa sorte dei fratelli.
Il Prefetto chiamò a sé il ragazzo Silvano, quartogenito della famiglia e presolo per i capelli, gli mostrava gli strumenti della più terribile tortura insieme alle orrende facce dei carnefici.
"Se noi temessimo, disse il ragazzo, questi vostri tormenti di un istante, ci esporremmo ad altri più tremendi per tutta l'eternità: Tormentateci, dunque, percuoteteci, bruciateci, uccideteci, non farete altro che affrettare la gloria che ci aspetta lassù nel cielo!"
Publio ordinò che il medesimo supplizio fosse applicato anche a Silvano.
Non meno coraggioso si dimostrò il giovanissimo Alessandro che, senza ascoltare nemmeno una parola del suo giudice, dichiarò "Io non riconosco altro Dio e padrone che il Signore Gesù; la mia bocca ne dichiara la divinità, il mio cuore lo ama, la mia anima lo adora e nel dire e far ciò, per quanto uno sia giovane dimostra certo più saggezza di un vecchio che crede e si prostra davanti agli idoli di pietra, i quali periranno insieme ai loro adoratori." Anche Alessandro seguì la sorte dei fratelli.
Fu la sorte del bambino Vitale; il giudice prendendo spunto dal suo nome gli disse amabilmente: "Tu che ti chiami Vitale, almeno tu, come dice il tuo stesso nome, amerai la vita e non vorrai andare incontro alla morte! Abiura, quindi, la tua fede."
"Che cosa è da preferire rispose il fanciullo - morire con la grazia di Dio o vivere schiavi dei demoni?" ."E chi sarebbero i demoni?" disse il Prefetto. "Sono gli idoli dei pagani e quelli che li adorano." rispose prontamente il bambino.
Il Prefetto era costernato nel vedere la forza dei ragazzi nella professione della loro fede e si accinse ad interrogare il minore che non aveva raggiunto l'età di sette anni. Marziale, data la sua giovanissima età, poteva più facilmente essere spaventato della minaccia dei tormenti; il giudice con grande stupore, però, vide il bambino alzare gli occhi al cielo come gli era stato raccomandato dalla madre ed esclamare quasi ispirato:
"Oh, se sapeste l’eterna beatitudine che è lassù riservata da Dio a quelli che per Lui soffrono e muoiono! Affrettate, dunque anche a me, ai fratelli, a nostra madre tale gioia, perché noi non desideriamo di meglio!"
IL MARTIRIO
Il Prefetto dell'Urbe comprese che nulla poteva fare per indurli ad abiurare e pensava che la morte, come loro dicevano, li avrebbe liberati dalle sofferenze terrene e li avrebbe consacrati per sempre alla felicità del cielo; cercò, di differire i tempi, anche al pensiero di aver svolto malamente le mansioni affidategli dall'imperatore che lo avrebbe ritenuto un incapace.
Infine, però, dovette trasmettere tutti gli atti del processo all’imperatore, il quale, dopo aver letto il contenuto, ordinò che tutti gli accusati fossero messi a morte, forse mirando ad incamerare le grandi ricchezze della matrona. Ciò gli avrebbe inimicato le potenti famiglie della nobiltà romana, e allora decise di demandare a vari tribunali dell'Urbe la responsabilità della condanna a morte di tutta quella famiglia tanto stimata nell'ambiente patrizio. Questa è anche la spiegazione dei vari luoghi del martirio dei componenti la famiglia di Felicita. Durante la stagione della mietitura, anche le giovani vite dei sette fratelli furono troncate una ad una dagli ignobili mietitori, sotto gli occhi della loro madre!
Non si può narrare fatto più straziante! Una madre che assiste alla morte di sette figli uccisi uno dopo l'altro in maniera così vile e barbara, grondanti vivo sangue. I discepoli di Platone discutevano su quale fosse il supplizio più duro per una madre: cavarle gli occhi, strapparle il seno? No, far morire alla sua presenza i suoi stessi figli e così verrà martirizzata nello stesso tempo dal dolore e dall'amore; nessuna più raffinata crudeltà potrebbe immaginare supplizio più atroce!
Ma se immenso fu il dolore di Felicita, meraviglioso fu il suo contegno di fronte al supplizio dei figli: più si sfogava la rabbia del carnefice, più quella martire invitta era ferma nel professare la fede e nel l'incoraggiare i figli a sopportare i tormenti per amore di Gesù.
Gennaro, il maggiore dei fratelli, venne fatto battere con fruste a palle di piombo finché il suo corpo ridotto ad un ammasso di carne e sangue non rese l'anima a Dio.
Filippo e Felice morirono sotto i colpi di bastone.
Silvano venne gettato da un'alta rupe, formata dal taglio delle cave di tufo nella zona di Fidene (periferia di Roma) .
Alessandro, Vitale e Marziale, essendo i minori, vennero decapitati. A tutti i supplizi dei santi ragazzi venne fatta assistere la matrona con la remota speranza di un'abiura, invece essa accresceva la sua fede in Cristo e incoraggiava i figli ripetendo loro eroicamente di non guardare le cose terrene ma il cielo.
IL CULTO
Le salme dei martiri vennero lasciate sul posto del martirio alla mercé degli uccelli rapaci e come esempio per coloro che passavano. Vennero poi raccolte dai pietosi necrofori cristiani e degnamente sepolte nelle vicinanze dei luoghi del loro martirio. L’esatta ubicazione delle sepolture rimase a lungo ignota ma quasi certamente esse furono dislocate lungo la via Salaria nelle vicinanze di Fidene, come attesta il grande archeologo G. B. De Rossi (1822-1894) che tentò di stabilire dove furono sepolti i sette martiri con la loro madre. Secondo l'Itinerario di Guglielmo da Malmesbury (1080-1143) e su molte altre indicazioni storiche, risulta che a Fidene (periferia della Roma imperiale) esisteva una Basilica dedicata alla Santa e al figlio Silvano; anche recenti studi archeologici, sistematicamente condotti presso il cimitero di Massimo, indicano che il corpo della Santa e di suo figlio Silvano furono accolti in un sepolcro di questo Cimitero. La stessa attestazione la troviamo nel Calendario Filocristiano del IV secolo per cui possiamo ben dire che i corpi di Silvano e di sua madre riposarono per molti anni nel cimitero di Massimo (dal nome del suo fondatore) detto poi anche di Santa Felicita.
Il corpo di Santa Felicita, dal luogo ove riposava, venne rubato dai Novaziani intorno all'anno 250; questi erano seguaci del diacono romano Novaziano che si fece eleggere papa (fu il primo antipapa della storia) contro papa Cornelio; egli si mise a capo di un partito rigorista eretico - scismatico, anche se nel 1932 in una tomba donatista a Roma viene ricordato come martire sotto Valeriano.
Tornato nelle mani dei cattolici, il corpo della Santa venne riposto nel primitivo sepolcro e venne innalzata sopra di esso una sontuosa basilica. Ritroviamo ancora notizie del sepolcro della santa intorno all'anno 420, allorché papa Bonifacio I fu costretto a nascondersi nel cimitero di Massimo per eludere le ricerche degli scimatici di Eulalio. La fine dello scisma dell’antipapa Eulalio fu certamente attribuita dal pontefice all'intercessione della santa, per cui Bonifacio fece restaurare la Basilica e adornò di marmi il sepolcro. Alla sua morte volle essere sepolto presso i resti della santa nello stesso cimitero come risulta dal Liber Pontificalis I, pg 227-229).
Con il diffondersi del cristianesimo, divenuto religione di stato al tempo di Costantino il grande, (313 dC) si sviluppò anche una grande devozione per i santi martiri che avevano sigillato la Fede col sangue.
E' quanto successe per la devozione verso Santa Felicita e Figli Martiri specialmente fra le donne romane le quali vedevano nella santa una concittadina e donna di casa come loro e la invocavano, lei che aveva avuto sette figli, in modo speciale coloro a cui era negata la maternità per le ragioni più varie.
Non lontano dal Colosseo stato rinvenuto un antico Oratorio, nella nicchia nel quale era raffigurata la Santa con i sette Figli mentre venivano incoronati con la palma del martirio dal Cristo Redentore e dal ritrovamento di una lapide marmorea con sopra la scritta: "Felicitas cultrix romanarum" (Felicita protettrice delle donne romane).
Si pensa che questo oratorio possa essere sorto sulla casa romana di Felicita o sul luogo della prigionia prima del martirio.
Questa devozione per la Santa di protrasse negli anni a seguire anche fuori di Roma, per cui S. Pietro Crisologo, (+ 450) grande oratore e vescovo di Ravenna, non disdegnò comporre uno stupendo elogio della Santa Martire, quando correva l'anno 439. Tale devozione non si limitò ai soli popolani di Roma ma fu intensamente sentita anche dai rappresentanti del clero e dagli stessi papi; abbiamo visto papa Bonifacio I e ritroviamo anche il papa San Gregorio Magno, colui che con la sua fede in Cristo riuscì a fermare a Mantova, nel 452, il flagello di Dio Attila, capo degli Unni e a convincere, nel 455, Genserico con i suoi Vandali a non procedere al saccheggio e all'incendio di Roma.
Papa Gregorio, ultimo difensore della grandezza dei destini di Roma, il giorno 23 novembre, proprio nella Basilica nel Cimitero di Massimo, elogiò Santa Felicita con queste ferventi parole:
"Felicita temette più di lasciare sulla terra i suoi figli di quanto le altre madri di sopravvivere ad essi. Ella fu ancor più che martire, poiché soffrì, in qualche modo, quello che soffrì ciascuno dei suoi sette figli. Secondo l'ordine del tempo fu l'ultima a combattere, ma fu angustiata durante tutta questa sanguinosa scena: cominciò il suo martirio con il primo dei suoi sette figli e non terminò che con la morte dell'ultimo. Ricevette così, una corona per sé e per tutti quelli che aveva messo al mondo; e vedendoli tormentare si mantenne ferma nella sua costante fede. Come madre ebbe a provare tutto quello che la natura fa soffrire in simili occasioni: ma si rallegrava quale cristiana per il sentimento che le ispirava la speranza..."
E il venerando pontefice concludeva con una solenne esortazione morale:
"Vergogniamoci almeno di vederci così lontani dalla virtù di questa grande martire, non avendo noi la forza di preservare la fede neppure dalle nostre peccaminose inclinazioni. Spesso ci lasciamo turbare da una parola o da uno scherno, la minima contrarietà ci scoraggia mentre i più crudeli supplizi e pure la morte non riuscirono a smuovere di una linea la nostra eroica Santa. Noi siamo soliti piangere e disperarci quando Dio ci ritoglie i figli che ci aveva dato e Felicita, invece, si rattristava al pensiero che i suoi figli non morissero per Gesù Cristo e si rallegrava nel vedere suggellare la vera fede con il loro stesso sangue." (Homilia in Evangelio. IV, 3).
Erano trascorsi trecento anni dalla morte di Felicita e dobbiamo ritrovare una profonda verità in questi scritti antichi, anche se basati sull'agiografia, in quanto, per il breve tempo trascorso, molte supposizioni o errori potevano essere confutati e non accettati così facilmente dal popolo e dalla cultura della Chiesa.
Nel secolo VIII, il papa Leone III, rendendosi conto dello stato di abbandono in cui versava il Cimitero di Massimo e vedendo che la Basilichetta di Felicita cadeva in rovina, fece trasportare le spoglie della Santa e di suo figlio Silvano presso la chiesa di Santa Susanna.
Con il passare del tempo, perfino del sito del Cimitero di Massimo si perse la memoria finché nel 1834, fatti alcuni scavi dalla Commissione di Archeologia Sacra, venne alla luce la Basilichetta del IV secolo, riconosciuta con tomba della Martire. Nelle sottostanti catacombe venne anche scoperto un dipinto molto rovinato ma nel quale erano visibili le figure di Felicita e di altri sette martiri, quelli che la tradizione identifica con certezza come i sette figli di Santa Felicita.
La Basilichetta di Santa Felicita è stata restaurata e riaperta al culto nel novembre 2013.
© Riproduzione riservata